Munari: il nostro rugby sta morendo, è in una fase di preoccupante involuzione. Ecco cosa auspico da questo VI Nazioni

Il Sei Nazioni è alle porte, e con esso il solito tamtam di giudizi e considerazioni sul reale valore della nostra nazionale. Gli infortuni di Minozzi, Bellini, Polledri alimentano, però, le incertezze attorno a una squadra che, a prescindere da chi ha di fronte, non può fare altro che dare il meglio in campo, sperando che anche gli avversari non facciano lo stesso. Di questo, e altro, ne abbiamo parlato con Vittorio Munari


L’Italia arriva a questo VI Nazione con alcuni dei suoi uomini chiave infortunati. Quanto può incidere questo aspetto?

Gli infortuni sono fisiologici, fanno parte del gioco del rugby. E’ chiaro che nella nostra condizione hanno una certa rilevanza. Non abbiamo una così vasta scelta, soprattutto in termini di competitività. E’ tutta qui la differenza con le altre squadre. Pensiamo all’Inghilterra, che a novembre ha giocato con gli All Blacks senza 13 giocatori di prima scelta e per poco non faceva il colpaccio.

E’ solo un problema di rosa, quindi?

Abbiamo davanti squadre più quadrate e attrezzate di noi e con rose migliori. Siamo chiaramente inferiori, inutile inventarci favolette. Chi negli anni passati, preso dall’entusiasmo facile, tipicamente italiano, pensava di aver raggiunto ad esempio la Scozia, ha dovuto ritrattare quanto detto e pensato. Il giorno dopo la vittoria col Sudafrica a Firenze ho letto cose inenarrabili. Per alcuni sembrava che avessimo raggiunto quel livello.

I test match di novembre hanno rafforzato questa sua convinzione?

Prendiamo la partita con l’Irlanda: la differenza tra noi e loro risiedeva nel fatto che 6-7 giocatori si giocavano il posto per entrare nei 23. Noi no. Non abbiamo questo problema, hanno giocato sempre gli stessi. Che giochino bene o male hanno assicurato il posto al mondiale. E’ chiaro che i nostri giocatori non sono messi nella condizione di dare il meglio, se sanno di non rischiare nulla. E’ umano.

Quindi cosa è realmente lecito auspicare dal torneo che è ormai alle porte?

Quando una persona, in ogni sua attività, dà il meglio di sé, ha già fatto il massimo. Mi aspetto questo dalla nostra nazionale. Poi, se ti confronti con uno migliore di te che dà il massimo, c’è poco da fare, non sempre le ciambelle riescono col buco. Sarebbe brutto perdere ed avere anche la delusione dettata dal fatto che alcuni giocatori non hanno dato il massimo. Chi gioca con l’Italia, per i motivi che ho appena detto, è chiamato a “morire in campo”. Qualsiasi cosa meno del 100% non va bene. Lo sanno anche i nostri ragazzi, ma sono sicuro che in campo daranno l’anima.

Vale lo stesso per i nostri avversari?

Si, anche loro sono chiamati a dare il meglio di loro stessi – e spesso lo danno – perché hanno il posto in prestito. C’è sempre qualcuno che glielo porta via.

Sulla base di quanto detto, quanto incide il lavoro di O’Shea e del suo staff tecnico?

L’allenatore fa con quello che può con quello che ha, e neanche lo può dire perché sennò ammazza la voglia di lottare di ragazzi che, pur non avendo grandissime qualità, in campo si impegnano sul serio. Dobbiamo, però, finirla di raccontarci una storia diversa dalla realtà e, quindi, si deve evitare di mancare di rispetto all’intelligenza della gente. Noi siamo un gradino sotto. Dobbiamo solo dare il 100%. E i ragazzi italiani spesso lo danno, ma non sempre basta quando vi sono disvalori così evidenti. E’ anche umano che subentri lo sconforto e che qualcuno molli. Il rugby è un gioco crudo, non mente. Ma è meglio affrontarlo per ciò che è, senza raccontarci favole.

Crede che il pubblico inizi ad avere percezione di tutto ciò?

Ci sono due modi di trattare il pubblico, come un popolo bue o come popolo intelligente. Andrebbe fatta una via di mezzo. Se prendi 40 punti e dici che giochi bene, qualcosa non quadra, mi sembra piuttosto chiaro. Dobbiamo essere più sereni in questo. A volte leggo delle cose che sono incredibili per la mancanza di aderenza alla realtà. Sembra quasi che si voglia vendere un prodotto che non c’è.

Quale è, allora, la vera sfida che il rugby italiano deve porsi?

Costruire un prodotto di qualità. Solo questo. Si deve ripartire dal rugby di base, dalla costruzione di un movimento. Criticare il giocatore è come quando la società civile critica i giovani, come se questi ultimi non fossero frutto della generazione precedente. Chi deve essere formato nel rugby italiano sono i dirigenti, gli arbitri e gli allenatori. Senza questo passaggio è inutile prendersela con chi va in campo. Quando in Italia si parla di rugby e di franchigie è come quando qualcuno compra un lotto di terreno edificabile e poi parla della disposizione dei quadri. Non so se mi spiego..

L’Italia cresce troppo a rilento o sono gli altri che vanno troppo veloci?

Noi battevamo l’Irlanda, la Scozia, la Francia nel 1998. Dopo di che non abbiamo mai avuto una precisa strategia di crescita, si è andati avanti alla cieca. Quello che più mi addolora è la mancanza di cultura e conoscenza che c’è nel rugby italiano.

Eppure, nonostante l’esperienza maturata in tutti questi anni, il movimento sembra vivere una fase di caduta libera..

Dal 2000 è scomparsa Catania, era già scomparsa Napoli con la Partenope, Benevento in chiarissima difficoltà, è scomparsa L’Aquila e adesso sta scomparendo Roma. Il rugby italiano, se togli il Veneto, ci devi aggiungere per tesserati – non per qualità – Lombardia ed Emilia. Poi hai chiuso. Si deve prendere atto che qualcosa non va. Il nostro rugby sta morendo, è sotto gli occhi di tutti. Vado spesso in giro per i club di tutte le regioni e trovo un disastro ovunque mi reco. Si fanno eventi per raccogliere soldi per pagare le bollette. Ad allenare i ragazzini ci sono genitori pieni di buona volontà ma senza il bagaglio tecnico giusto, e intorno a loro non c’è praticamente nulla. In questa maniera come fanno a uscire fuori i giocatori?

Foto: Linkiesta