Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso, atto V: intervista al regista Nicola Borghesi

Ognuno di noi ha il proprio “Giardino dei ciliegi”. Quello di Annalisa e Giuliano Bianchi era una casa colonica che il comune di Bologna aveva loro concesso in comodato d’uso gratuito e che dopo 30 anni si sono visti togliere a causa di uno sfratto in occasione dell’apertura, proprio di fronte la loro abitazione, di FICO, il  grande parco a tema agroalimentare. Annalisa e Giuliano sono i protagonisti reali della loro storia nonché di quella portata in scena dal regista rivelazione del teatro italiano Nicola Borghesi insieme alla sua compagnia bolognese Kepler-452 e gli attori Paola Aiello e Lodovico Guenzi, nome noto ai più per essere tra l’altro il cantante de Lo Stato Sociale e nuovo giudice del format televisivo “X Factor”.

Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso”, prodotto dalla Fondazione Emilia Romagna Teatro e in scena al Teatro dei Marsi di Avezzano (AQ), ha entusiasmato ma soprattutto incuriosito il pubblico in sala che ha visto un classico della drammaturgia teatrale rivisitato in chiave moderna, ma con un elemento in comune: la perdita dei luoghi dell’anima per ragioni economiche.

Come Gaev e Ljuba di Cechov, in un momento non definito di fine Ottocento perdevano il proprio giardino dei ciliegi insieme alla loro casa per motivi di debiti, così, nel 2015 Giuliano e Annalisa Bianchi perdevano la propria casa dopo 30 anni di  affetti, di felicità e dopo aver accolto e accudito animali stravaganti o persone ai margini della società, tra rom, carcerati in borsa lavoro e babbuini. Durante le quasi due ore di messa in scena la storia di Geav e Ljuba, personaggi originali della drammaturgia di Cechov, si confonde con quella più attuale di Giuliano e Annalisa.

Le pellicce e il cappello hanno il compito di riportarli nel lontano Ottocento, mentre gli altri attori, Nicola, Lodovico e l’incantevole Paola raccontano agli spettatori come le loro vite si sono intrecciate con quelle dei due bolognesi, tra un pranzo di polpo, dieci piani di scale in un residence che aveva perso alcune lettere dell’insegna, una micia dal nome “Micia” e un furto, dopo lo sgombero, nel proprio giardino di quell’uva con cui Giuliano era solito fare del buon vino, quello da 9 gradi che ti stende e fa dormire per giorni.

L’interazione con il pubblico è stata intensa, tra momenti di ilarità e di commozione pura. Ma la forte emozione non poteva non aversi con il monologo della signora Annalisa e la descrizione dettagliata dello sgombero, in cui la più grande preoccupazione era rappresentata dal dover forzatamente abbandonare quella lunga lista di animali così diversi tra loro ma accomunati da una sola cosa, l’amore e l’affetto nei confronti di quei due Bianchi che avevano dedicato la propria vita ad accudirli. Il momento  giusto per mettere la parola fine ad uno spettacolo intenso e reale e che forse al giorno d’oggi dovrebbe far solo che riflettere.

In occasione di questa grande trasposizione teatrale abbiamo incontrato il regista dello spettacolo Nicola Borghesi.

Da dove nasce l’idea di questo “Giardino dei ciliegi” rivisitato? Perché Cechov?

Noi siamo una compagnia teatrale che si occupa di lavorare preferibilmente con non professionisti, è il nostro modus operandi da anni. Ci siamo chiesti, allora, se questo non potesse costituire un ostacolo ad un eventuale approccio ad un classico della drammaturgia e ci siamo risposti di no!
Storicamente siamo dei grandi appassionati di Cechov anche se era rimasto fuori dalle nostre possibilità. Abbiamo cercato delle persone attraverso un principio di ingaggio che fosse tratto dalla trama de “Il Giardino dei Ciliegi” e quindi luoghi dell’anima scomparsi per motivi economici.

Come mai il Giardino dei Ciliegi di Giuliano e Annalisa Bianchi?

Credo che abbia molto a che fare con la natura dell’incontro umano. Altri Giardini di Bologna avevano anche un carattere più collettivo, si riferivano più ad un gruppo di persone. Giuliano e Annalisa erano proprio come Ljuba e Gaev di Cechov e hanno un reticolato di caratteristiche identitarie del luogo che abitavano, molto simile ai protagonisti del testo originario. L’ incontro è stato speciale da un punto di vista umano e con loro è scattato un principio di divertimento e gioia di stare insieme.

Come è stato lavorare con due persone che non sono attori?

Noi, secondo una definizione del professor Guccini dell’università di Bologna, li chiamiamo “attori mondo”. Lavorare con loro è stato complesso ed anche facile, allo stesso tempo. Complesso sul piano umano perché ci siamo relazionati con una storia dolorosa e difficile. Facile nel senso che la loro somiglianza con i personaggi di Cechov è così impressionante che pur non essendo attori, dalla prima volta che hanno preso in mano quel testo e l’hanno letto – testo che di solito si è abituati a sentir recitato da professionisti – le parole interpretate da loro assumevano immediatamente una caratura diversa, diventavano magiche.

…e come li avete convinti a salire su un palcoscenico?

Molto è dipeso dalla forza dell’incontro, questo ha facilitato le cose. Poi il piacere di stare insieme, anche sul palco, secondo me, si è innestato su due fattori. Il primo rappresentato dal desiderio di far conoscere questa vicenda. Il loro grande dispiacere è dato dal fatto che tale vicenda fosse accaduta nel silenzio generale. E poi, il secondo, che definirei quasi come “elemento di elaborazione del lutto”, che ha permesso loro di mettere ordine nel caos di quegli anni.

Il fatto che sul palco vi siano due non-attori rappresenta un elemento che aumenta l’interesse da parte dello spettatore?

Io credo di si, credo che le persone vanno un po’ a caccia di qualcosa che possa stupirli e che non è mai successo prima. Quando loro due entrano in scena per la prima volta, con delle pellicce incongrue, delle valigie e il viso scolpito nel legno del tempo, è una roba…. “wow” (ride ndr).

La perdita è il tema centrale di questo spettacolo, anche nella sua forma originale. Quale è il messaggio, se c’è, invece che si vuol trasmettere?
A me sembra problematico parlare di messaggio. Quando si parla di messaggio quello che intendo è sempre qualcosa di univoco. Invece quello che spero che emerga dal conflitto delle due posizioni in scena, da questo campo di forze è un principio anche filosofico, che riguarda la supremazia degli individui e delle loro istanze e libere associazioni rispetto a quello che Marx chiamava il principio di scambio, cioè che tutti gli oggetti dello schema del reale siano scambiabili e che nessuno ha un valore in sé.  Mi auguro quindi che si trasmetta e si riconosca, soprattutto, il valore che quei luoghi avevano per Annalisa e Giuliano come lo avevano allo stesso tempo per Ljuba e Gaev.

Foto Silvia Salvatore