Ultraviolenza. L’universo letterario di Chuck Palahniuk, in bilico tra horror e humour

Attenzione: non adatto ai deboli di cuore, bisognerebbe scrivere sulla copertina dei romanzi di Chuck Palahniuk. E non è un’esagerazione. L’alone mitologico che circonda Palahniuk – ormai diventato un’icona letteraria del nostro tempo – scaturisce anche dalle reazioni viscerali che le sue storie riescono a suscitare: disgusto, orrore, isteria. Basti pensare a Budella, un racconto tratto dal romanzo Cavie: è talmente scabroso (parla di masturbazione estrema) che, quando Palahniuk lo legge ad alta voce durante le presentazioni, c’è sempre qualcuno tra il pubblico che si sente male. L’autore sostiene che il racconto abbia causato in totale 73 svenimenti, ma c’è chi dice che il numero ammonta addirittura a 200. Fatto sta che, fuori dagli auditorium dove Palahniuk tiene le letture dei suoi romanzi, c’è sempre un’ambulanza.

Il fascino di Chuck Palahniuk – classe ’62, americano di radici ucraine – non è dovuto, tuttavia, solo all’elemento splatter delle sue storie, per quanto quest’ultimo risulti indiscutibilmente intrigante per gli appassionati di pulp fiction. Dietro il “fenomeno Palahniuk”, esploso nei primissimi anni 2000 con il successo di Fight Club – immediatamente riconosciuto come un cult generazionale assieme al film omonimo, diretto da David Fincher e interpretato da Brad Pitt ed Edward Norton – ci dev’essere qualcos’altro.

Innanzitutto la prosa: lo stile giornalistico di Palahniuk è asciutto, fulminante, minuzioso fino all’imbarazzo, caratterizzato da un certo gusto morboso per il grottesco. Secondo Palahniuk è deleterio infiocchettare le situazioni orripilanti: una prosa barocca indebolirebbe l’effetto straniante sul lettore. Per questo il suo stile è distaccato, chirurgico. Le cose che ci fanno distogliere lo sguardo, lui le scandaglia al microscopio. Sperimentare le sue narrazioni in prima persona è come viaggiare in un tunnel dell’orrore, dove le attrazioni principali sono le nostre piccole perversioni quotidiane. In Palahniuk non c’è niente di banale: le sue folgorazioni immaginifiche, sempre sull’orlo del paradosso – come la scena di apertura di Invisible Monsters: la splendida sposa dall’abito carbonizzato che imbraccia minacciosa un fucile – sono indimenticabili. E molto spesso sono basate su fatti realmente accaduti, che l’autore raccoglie meticolosamente attraverso interviste e ricerche condotte sul campo: centri di recupero, chat rooms, linee telefoniche erotiche. “La gente deve elaborare queste storie raccontandole” ha affermato Palahniuk. “L’unico modo è attraverso queste confessioni profane, delle quali io sono il sacerdote”.

C’è però ancora qualcos’altro che ci tiene agganciati ai romanzi di Palahniuk, e che non ce li fa abbandonare dopo qualche capitolo, nauseati dalla crudezza degli argomenti trattati. È l’ironia che pervade costantemente il racconto. Spiega lo stesso Palahniuk che suscitare la risata nei lettori fa parte di un meccanismo più grande, elaborato per coinvolgerli e sfidarli: fino a che punto si può ridere di qualcosa? Dov’è che la risata (sardonica, nichilista, ma pur sempre una risata) è capace di sopraffare l’orrore? Provocato da una battuta fulminante o da un parallelo inaspettato, è il riso che getta luce sulle tenebre del nostro animo. Persino quelle più intime e sporche, che Palahniuk si è dedicato, religiosamente, a raccontare.

Francesca Trinchini