Un marziano a Roma. Il genio e la satira di Ennio Flaiano

«Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere.»

(Ennio Flaiano)

Quando si parla di scrittori abruzzesi, il pensiero va immediatamente al vate D’Annunzio; poi a Ovidio, a Croce, a Silone… solo dopo ricordiamo Ennio Flaiano. Non è certamente un demerito di Flaiano è che lui, giunto a Roma a dodici anni (nel 1922, su un treno pieno di fascisti) e sepolto dalle parti di Fiumicino, è considerato più spesso un romano d’adozione che un abruzzese. “Mi domando anch’io che cosa ho conservato di abruzzese” scrive Flaiano in una lettera “e debbo dire, ahimè, tutto…

Forse è stato proprio il suo status di romano “non autoctono” a renderlo così spietatamente critico nei confronti della Città Eterna – “l’enorme garage del ceto medio d’Italia” – e allo stesso tempo così innamorato, di un amore esasperato; lo dimostra il fatto che è stato Flaiano, assieme a Tullio Pinelli, a scrivere con Fellini la sceneggiatura de La Dolce Vita, una delle più grandi dichiarazioni d’amore che Roma abbia mai ricevuto. Il sodalizio artistico con Federico Fellini fu uno dei più fecondi della vita letteraria di Flaiano: scrissero dieci film assieme, tra cui la sopraccitata Dolce Vita, I vitelloni, Le notti di Cabiria, 8½. Ma la figura di Flaiano si è imposta con decisione nel cinema italiano del dopoguerra anche senza Fellini: ha infatti collaborato con Rossellini, Monicelli, Dino Risi, Antonioni…

Oltre che per le sceneggiature, Ennio Flaiano è ricordato principalmente per i suoi elzeviri e i suoi brillanti, atroci aforismi  ma forse bisognerebbe chiamarli epigrammi, come quelli di Marziale, o satire, come quelle di Giovenale, o occasioni, come quelle di Montale. Il filo conduttore che li lega è un certo moralismo particolare, intelligente e paradossale, che mira a demolire dall’interno le contraddizioni della borghesia italiana del dopoguerra (e non solo). “[Gli italiani,] questo popolo di santi, di poeti, di navigatori, di nipoti e di cognati…

E i libri? Flaiano è stato chiamato “scrittore di pseudo-poesie e di non-romanzi, o meglio, romanzi mancati”. Come avrebbe potuto una personalità irriverente come la sua riuscire a incasellarsi ordinatamente in un genere letterario? Lui era un marziano, “un marziano a Roma”, un po’ come lo Ziggy Stardust di David Bowie. Solo che Flaiano, al posto di incarnare il glam, lo osservava attentamente, con un sorriso sornione sotto i baffi.

Francesca Trinchini