Un Siddhartha tedesco. Il viaggio di Hermann Hesse, il lupo solitario della letteratura del Novecento

«Quando mi sprofondo in un bel libro, faccio qualcosa di meglio, di più intelligente, di più meritevole di quanto non abbiano fatto da anni tutti i re e i ministri di questo pazzo mondo. Io costruisco là dove loro distruggono; raccolgo là dove loro disperdono; amo Dio là dove loro lo rinnegano e lo crocifiggono.»

(Dagli Aforismi di Herman Hesse)

Orientale e europeo, mistico e sensuale, pellegrino solitario e amico inseparabile; uomo e lupo, Siddhartha e Govinda, Narciso e Boccadoro: Hermann Hesse è l’autore che è riuscito a far combaciare gli opposti più inconciliabili, in una sintesi assieme improbabile e perfetta. Autore eclettico, poeta e filosofo, è stato la voce dei giovani ribelli di più di una generazione dagli hippies americani del movimento Flower Power alle artiste mangaka giapponesi dei primi anni ’70 – e il simbolo della ricerca di un nuovo modo di vivere, lontano dalle roboanti piccolezze borghesi e vicino al cuore delle cose, teso verso l’unitarietà del tutto.

Ma quanto è complicato essere autentici. Volevo solo cercare di vivere recitano i versi all’inizio del romanzo Demian ciò che spontaneamente veniva da me. Perché fu tanto difficile? E infatti l’esistenza di Hermann Hesse fu tutt’altro che semplice. A quindici anni fuggì dal seminario dove i suoi genitori, rigidi pietisti, l’avevano costretto, e tentò il suicidio fortunatamente fallì, ma solo perché la pistola si era inceppata. A trentaquattro anni partì alla volta dell’Oriente, le cui suggestioni mistiche e artistiche ritornarono così spesso nella sua opera e nella sua vita. Pacifista durante la Prima Guerra Mondiale, trovò un rifugio in Svizzera e nella terapia psicanalitica di Carl Gustav Jung in persona. Gli anni ’20 e ’30 furono i più fertili dal punto di vista letterario: in quel periodo videro la luce Siddhartha, Il lupo della steppa, Narciso e Boccadoro, e iniziò a nascere l’ultimo capolavoro, quello che avrebbe tenuto impegnato Hesse per più di dieci anni, Il giuoco delle perle di vetro una sorta di testamento spirituale. Successivamente scelse di ritirarsi dalla vita pubblica; ribelle nei confronti di tutte le ideologie suscettibili di manipolazione, rifiutò sia il nazismo sia, dopo la guerra, il maccartismo e il totalitarismo sovietico. Vinse il Premio Nobel per la Letteratura nel 1946, con questa motivazione: “Per la sua scrittura ispirata che nel crescere in audacia e penetrazione esemplifica gli ideali umanitari classici, e per l’alta qualità dello stile“.

È sempre stato un outsider, Hermann Hesse anche se questo termine ci fa più volentieri pensare a Camus. Ma come racconta nel Giuoco attraverso un’allegoria di respiro amplissimo, essere outsider non basta; l’intellettuale deve rompere il suo ritiro spirituale e restituire alla civiltà, all’umanità, tutto ciò che essa gli ha dato. Nulla può esistere senza il suo contrario è la contrapposizione tra nirvana e samsara che Siddhartha riesce a sciogliere alla fine del romanzo e solo chi ha una prospettiva limitata non riesce a comprendere che negli opposti c’è una fondamentale unità. Ma non possiamo negare che quello che ancora ci affascina di Hermann Hesse sia il suo spirito da outsider, da vagabondo, da ribelle. E proprio come lo Steppenwolf, di Hesse possiamo dire: in fondo al cuore sapeva (o credeva di sapere) di non essere veramente un uomo, ma un lupo venuto dalla steppa.

Francesca Trinchini