O partigiano, portami via. Il 25 aprile delle donne e la loro “Resistenza taciuta”

Il 25 aprile 1945, i partigiani vittoriosi si riversano nelle vie delle città del Nord Italia appena liberate dall’occupazione nazifascista. Dopo due anni, la lotta estenuante e sanguinosa della Resistenza italiana sembra volgere, finalmente, al termine. Nel 1943, finita una guerra – l’8 settembre era stato firmato l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati – ne era scoppiata immediatamente un’altra: l’Italia era passata dalla guerra di aggressione a quella di liberazione. Come ha notato lo storico Claudio Pavone, si trattava questa volta di un conflitto non solo patriottico, cioè contro l’invasore tedesco, ma di un’autentica guerra civile fra italiani: fascisti “repubblichini” da una parte, partigiani dall’altra. Ma le voci e i volti multiformi della Resistenza italiana non sono solo “partigiani”: sono militari e civili di diverso vissuto politico, religioso e ideologico, di ogni età e provenienza, uniti contro le barbarie del nazifascismo, capaci di opporvisi in centinaia di modi diversi – non solo con le armi. Saranno tuttavia i “partigiani” tipicamente intesi quelli che vedremo sfilare, tra la folla esultante, nelle città liberate: prima Roma e Firenze nel ’44, poi, dopo lo sfondamento della linea gotica nell’aprile del ’45, Bologna, Genova, Milano, Torino.

Tuttavia, le donne non sfilano assieme ai partigiani.

Quelle donne che hanno aderito allo spirito della Resistenza fin dal primo istante – da quando hanno spontaneamente prestato aiuto, soccorso e ospitalità ai soldati italiani allo sbando, dopo l’ambiguo comunicato dell’armistizio del ’43 – e hanno consciamente e decisamente messo le proprie vite al servizio della causa antifascista, non sfilano nei cortei assieme agli uomini. Non si espongono agli schiamazzi della folla festosa, non reclamano medaglie o riconoscimenti; soltanto 35mila sono contate come partigiane, contro i 150mila uomini. La loro storia viene taciuta a lungo: una donna in un ruolo così tipicamente maschile suscita imbarazzo, risatine di scherno. E anche quando viene raccontata, la storia delle donne partigiane è colpevolmente diluita per farla risultare più socialmente accettabile, a partire dalla scelta delle parole: “ruolo”, “partecipazione”, “contributo femminile” nella Resistenza. Ma, osserva Katia Romagnoli, curatrice del portale storico online dell’Anpi, chi oserebbe parlare di “contributo maschile” nella Resistenza?

La verità – troppo a lungo taciuta – è che le donne sono state indispensabili per la liberazione del nostro paese dal giogo nazifascista. Nonostante ciò, le donne della Resistenza sono state spesso relegate a un ruolo di “supporto” dalla storiografia tradizionale. Quei compiti che erano di appannaggio tipicamente femminile – celebre quello della “staffetta” – sono stati sminuiti in quanto tali, o fraintesi. Infine, le azioni e gli scopi delle donne nella Resistenza sono stati, di volta in volta, depoliticizzati per giustificare una certa retorica, quella che vede la donna agire esclusivamente per un discutibile “istinto materno” o innato “spirito pacifista” femminile, e non per una ferma presa di posizione politica. Quest’interpretazione risulta sostanzialmente scorretta quando notiamo che la lotta di liberazione è stata la “prima occasione storica di politicizzazione democratica” (secondo la definizione di Bianca Guidetti Serra) offerta alle donne italiane. Per questo è importante ricordare, in occasione di questo 25 aprile, che la Resistenza non fu solo armata, ma anche civile. E che, in ogni caso, le donne sono state anche partigiane a pieno titolo (se vogliamo per forza riferirci allo stereotipo del “partigiano in armi”), capaci di distinguersi anche imbracciando le armi, e non solo occupandosi dell’aspetto logistico, assistenziale, civile della Resistenza – per quanto quest’ultimo sia fondamentale e non meno impegnativo. Le donne sono riuscite infatti ad assumere tutti i volti della Resistenza italiana (quella armata, quella civile e tutte le sfumature di grigio che intercorrono tra i due poli), ma le donne partigiane vengono ancora additate come macchiette o come rarità, o, ancora peggio, non vengono considerate affatto: quella femminile è la “Resistenza taciuta”, per citare il titolo del celebre saggio di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina. Questo 25 aprile, parliamone.

Francesca Trinchini